lunedì 16 marzo 2009

voci su Gaza


Nel corso delle settimane dell’offensiva israeliana su Gaza, l’opinione pubblica italiana è stata bombardata da un fuoco di dichiarazioni e polemiche, superficiali valutazioni politiche, opinioni schierate e urlate, analisi imprecise e inattendibili. Ancora oggi il frastuono scomposto che in Italia ha fatto da sottofondo ai tragici eventi di Gaza fatica a placarsi. In tutto questo rumore si sono perse di vista le persone, le loro emozioni, la loro drammatica quotidianità, il loro modo di vivere gli eventi, sia a Gaza che in Israele. Le vite umane erano solo il numero delle vittime che è tragicamente continuato a salire durante i giorni dell’offensiva, ma la loro voce è andata perduta. Le facce inespressive dei nostri politici si sono imposte, travolgendo con le loro parole vuote i volti e le voci di coloro che sia da Israele e dalla Palestina cercano di offrire una lettura diversa degli eventi, andando contro la politica dominante dei loro paesi, oppure lanciando semplicemente il loro grido di disperazione.
Progetto Sviluppo, l’istituto sindacale per la cooperazione allo sviluppo della Cgil, che da anni lavora in Palestina, ha raccolto le testimonianze di alcune persone, arabi e israeliani, che a diverso titolo e in diversi modi sono impegnate nella costituzione di una pace duratura tra Israele e Palestina. Ron Pundak, che ha svolto un importante ruolo durante gli accordi di pace di Oslo nel 1993, e attualmente è direttore generale del Peres Center for Peace di Tel Aviv, ha scritto una lettera ai suoi colleghi in cui invita a una riflessione sugli avvenimenti delle ultime settimane e a non abbandonare il sentiero della pace. “Questa tragica situazione – vi si legge – procura anche a noi sofferenza, rabbia e senso di perdita. Tuttavia continueremo a impegnarci nella lotta per la pace e per un futuro insieme. Le nostre vite sono interdipendenti e intrecciate e noi, israeliani e palestinesi, dobbiamo prenderci le nostre responsabilità e realizzare, in nome di un futuro migliore, il principio in base a cui ogni Stato ha il diritto all’autodeterminazione. Nonostante tutto, questo è il tempo di lavorare insieme”.
Abdalqader Husseini è il Presidente della Faisal Husseini Foundation, un istituto impegnato nella conservazione dell’identità araba della città di Gerusalemme e nella realizzazione di una serie di progetti nel campo dell’istruzione e della sanità. Nel suo intervento Husseini racconta l’angoscia che lo ha accompagnato nei giorni dell’offensiva israeliana. “Non riuscivo a staccarmi dalla televisione” – scrive –. Le notizie erano incessanti e non lasciavano il tempo di pensare e neppure di respirare”. Nonostante le difficoltà il lavoro della fondazione va avanti, scrive ancora Husseini, con la speranza che “termini questa fase di divisioni interne e che si possa trovare un terreno comune per porre fine all’aggressione, alle morti e alla distruzione”.
Anche allo Youth Development Department di Gerusalemme l’attività non si è mai interrotta. Il direttore Mazen Jabari accusa Israele di provocare “grandi sofferenze” agli arabi di Gerusalemme, in particolare ai giovani e ai bambini privi di un sistema di istruzione adeguato e di strutture sociali. L’istituto – derivazione dell’Orient House, chiusa dall’autorità israeliana a metà del 2001 – continua a fornire supporto e assistenza sociale alla fascia più debole dei cittadini, “con l’obiettivo di alleviare i loro problemi e sviluppare il lavoro delle associazioni che operano con loro”, come sottolinea Jabari.
Salim Anati è il direttore del Disabled center del campo profughi di Shufat, a nord di Gerusalemme, dove vivono più di 10.000 palestinesi. In seguito all’offensiva su Gaza, i profughi del campo, molti dei quali hanno parenti e amici nella Striscia, hanno improvvisato alcune dimostrazioni sfociate in scontri anche violenti con le truppe israeliane, che hanno disperso i manifestanti ferendone e arrestandone alcuni. Salim Anati sottolinea la necessità di fermare “il ciclo della sofferenza” e il “linguaggio della violenza”. “Imprigionati come animali – scrive –, gli abitanti di Gaza non hanno alcuna possibilità di spostarsi, di lavorare, di vendere la loro frutta e verdura, di andare a scuola. La vita di Gaza, per la popolazione impoverita e affamata, si è trasformata in un incubo”.
Le voci degli ebrei israeliani contrari alla guerra sono ben rappresentate da Daniel Bar-Tal, professore dell’Università di Tel Aviv, da anni impegnato nella costruzione di una coesistenza pacifica tra arabi e israeliani. Bar-Tal sottolinea che la maggior parte degli israeliani ha una visione parziale e alterata della guerra: “La maggior parte degli ebrei israeliani – scrive – non sa niente di quello che Israele ha fatto durante l’occupazione di Gaza. Non sa che tra il 2005 e il 2008 centinaia di palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Non sa che i tunnel sono stati costruiti soprattutto per portare all’interno della Striscia i beni civili vietati dall’embargo. Non sa che c’è una relazione tra la violenza israeliana e quella palestinese e preferisce immaginare la seconda come irrazionale, faziosa e immorale e la prima come difensiva, morale e giustificata”.
Le voci di questi israeliani e palestinesi disgustati dalla guerra accendono un piccolo, fragile barlume di speranza. La guerra ha rafforzato l’odio e la sfiducia e ha estremizzato ancora di più le posizioni. Il processo di pace è stato fortemente danneggiato. Ma alcune persone, da entrambe le parti, continuano a lavorare per costruire ponti di comprensione, di cooperazione e di umanità.

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