domenica 29 marzo 2009

La memoria negata di Portella della Ginestra


Nell’anniversario della strage di Portella della Ginestra, è importante non solo ricordare la tragicità dell’evento e omaggiare la memoria dei caduti, ma anche ricollocare questo episodio all’interno di un contesto storico, in modo tale da gettare luce sulla prima pagina buia dell’Italia repubblicana. Quella di Portella della Ginestra può essere considerata la prima “strage di stato” dell’Italia del dopoguerra e rappresenta un modello che si è tragicamente ripetuto nei massacri che hanno insanguinato il nostro paese nei decenni successivi. La strage siciliana è l’emblema di un clima politico e istituzionale fatto di connivenze, coperture e alleanze che ha segnato la storia dell’Italia Repubblicana.
Il primo maggio 1947, in occasione della festa dei lavoratori, circa duemila persone, in gran parte contadini, si riunirono nella vallata di Portella della Ginestra, nei pressi di Palermo, per manifestare contro il latifondismo e festeggiare la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali del 20 aprile. Improvvisamente la folla venne colpita da raffiche di mitra provenienti dalle colline circostanti. La carneficina durò un paio di minuti e lasciò senza vita 11 persone, tra cui due bambini, mentre i feriti furono 27.
La verità giudiziaria si è limitata a individuare gli esecutori materiali della strage negli uomini del bandito Giuliano. Le indagini furono compromesse dalla volontà di una parte delle forze di governo di escludere la pista della strage politica e di non rintracciare i mandanti. In realtà la storia di Portella della Ginestra si intreccia con una serie di dinamiche che in quegli anni stavano maturando a livello locale, nazionale e internazionale nell’ambito di una guerra fredda già determinante. A partire dal 1946 gli Stati Uniti assumono una posizione più oltranzista nei confronti dell’Italia, che aveva una valenza geopolitica di pilastro anticomunista in Europa. La strage è la conseguenza di un patto segreto tra le forze più potenti in quel momento: i servizi segreti americani, la chiesa e il partito ad essa legato, alcuni uomini legati al fascismo e la mafia, incaricata di controllare il territorio e manovrare il banditismo. Alcune carte dell’Oss (Office of Strategic Services) desecretate rilevano un’intensa attività da parte dell’intelligence americana volta a recuperare, addestrare e spedire in Sicilia alcuni esponenti del fascismo italiano, in particolare gli uomini della decima Mas del principe Junio Valerio Borghese.
Nel 2004 i familiari delle vittime hanno chiesto la riapertura dell’inchiesta sulla strage. Ma la verità è ancora lontana. Per questo è importante ricordare e recuperare la memoria negata e perduta della carneficina che ha segnato una prima svolta nella storia d’Italia. Portella della Ginestra ha aperto una strada che è stata più volte drammaticamente ripercorsa nella storia del nostro paese. Si tratta di un preludio a quella strategia della tensione che insanguinerà l’Italia venti anni dopo, ma le cui radici vanno ricercate nel periodo postbellico. I semi di ciò che verrà sono già presenti e hanno attecchito. Dove fallisce la verità giudiziaria, la verità storica può pareggiare i conti e rendere giustizia ai morti e ai sopravvissuti. Sul piano storico è importante rilevare l’intreccio tra mafia, banditismo e politica, consapevolmente utilizzato sul piano locale, nazionale e internazionale nel nuovo clima della guerra fredda. Stabilire la verità storica di Portella della Ginestra può contribuire a chiarire il corso degli eventi futuri che hanno segnato il nostro paese e porre un primo mattone per restituire una memoria troppe volte negata.

lunedì 16 marzo 2009

Movimenti separatisti in Pakistan


Il rapimento del funzionario americano dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) nel sud del Pakistan ha messo in evidenza le controversie e le ferite aperte di una regione le cui contraddizioni non sono ancora state risolte. Il gruppo che ha rivendicato il sequestro si è identificato come Fronte Unito di Liberazione del Belucistan, una sigla fino a oggi sconosciuta. Ma questa regione da anni è segnata dallo scontro anche violento tra i separatisti beluci e il governo federale pakistano. Il fallimento della tregua, firmata l'anno scorso tra il governo pakistano e il movimento per la liberazione del Belucistan dopo anni di scontri, ha inasprito ulteriormente il risentimento dei beluci. Le critiche sono rivolte in particolare al Presidente Asif Ali Zardari, accusato di non aver voluto portare a termine i colloqui con i ribelli. Mentre in precedenza il movimento nazionalista beluci rivendicava una maggiore autonomia all'interno della Federazione del Pakistan, oggi il peggioramento della situazione ha portato i ribelli a lottare per ottenere un paese separato di etnia beluci.
Il Belucistan non è l'unica area del paese dove si registra un aumento dell'instabilità e della violenza. Nell'ultimo anno il Pakistan è progressivamente collassato su se stesso, a causa dell'incapacità politica di armonizzare le sue diverse anime. In vaste zone del paese lo stato non ha più alcun controllo e il potere è in mano a gruppi locali difficilmente gestibili. Le aree più calde del paese, testimoni di numerose violenze e insurrezioni, sono, oltre al Belucistan, la Provincia della Frontiera del Nord-ovest (Nwfp) – che nel giro di due anni è diventata terreno di battaglia di gruppi radicali islamici e dove nel corso del 2008 quasi 3000 persone hanno perso la vita – e le Aree Tribali di Amministrazione Federale (Fata), che dallo scorso agosto sono teatro di un’offensiva governativa favorita da Washington.
Il Belucistan è la più grande delle quattro province del Pakistan e copre il sud-ovest del paese, il sud-ovest dell'Afghanistan e il sud-est dell'Iran. Il territorio, strategicamente importante e ricco di risorse minerarie, dovrebbe essere attraversato dal cosiddetto oleodotto della pace che dall'Iran dovrebbe arrivare in India e Cina, la cui realizzazione è ostacolata dagli Stati Uniti. Nel corso del 2007 e del 2008 il numero delle violenze e delle uccisioni è notevolmente aumentato in quest’area e nel 2009 la cadenza degli attacchi è stata quasi giornaliera e ha portato alla morte di 15 persone e al ferimento di oltre 50 dall’inizio dell’anno. Sono tre i principali gruppi ribelli che rivendicano l’autonomia della regione: il Gruppo Armato per la Liberazione del Belucistan (Bla), il Gruppo Armato Repubblicano per il Belucistan (Bra) e il Fronte per la Liberazione del Belucistan (Blf). Il 4 gennaio scorso i tre gruppi hanno annunciato la fine della tregua durata 4 mesi, dopo che – stando alle loro dichiarazioni – il governo aveva ucciso diversi uomini durante alcune operazioni militari nella provincia. I più importanti leader politici beluci, che appoggiano i ribelli, hanno negato ogni coinvolgimento dei movimenti separatisti attivi in Belucistan nel rapimento del funzionario dell’Onu. Del resto prima di questo episodio i ribelli beluci non avevano mai realizzato azioni aggressive né violenze nei confronti funzionari occidentali. L’identità dei rapitori resta dunque tuttora oscura. La salvezza di John Solecki è appesa al filo delle trattative in corso tra il governo di Islamabad e il gruppo dei rapitori.

Omaggio a Salvador Allende


Dopo la caduta delle Torri gemelle, l’11 settembre è diventata una data intrinsecamente legata alla tragedia che ha segnato una frattura nella storia del mondo contemporaneo, quasi un termine a sé stante che rimanda automaticamente la memoria alle immagini per anni ossessivamente ripetute dai media internazionali. E così si tende a dimenticare che l’11 settembre indica anche un evento meno sbandierato e strumentalizzato, ma non per questo meno tragico, avvenuto 28 anni prima del crollo delle torri gemelle. L’11 settembre 1973 le forze armate cilene guidate dal generale Augusto Pinochet misero in atto il golpe che pose fine al governo democratico e riformista di Salvador Allende e aprì la strada a 17 anni di sofferenze e di persecuzioni per il popolo cileno. In quella stessa occasione il Presidente Allende, personaggio chiave della storia cilena del secolo scorso, venne assassinato mentre cercava di resistere all’interno del Palazzo della Moneda. Ma anche in quelle ultime ore drammatiche, nel pieno dell’assedio, nel suo messaggio al popolo Allende scelse parole che parlavano al futuro: “La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine, è possibile che ci schiaccino, però il domani sarà del popolo. L’umanità avanza per la conquista di una vita migliore”. È così che nasce il mito di Salvador Allende, che ancora oggi si estende su tutti coloro che in Cile e nel mondo credono nella libertà e nel progresso civile e sociale.
L’impegno politico di Salvador Allende cominciò nel 1933, quando fu tra i fondatori del Partito Socialista del Cile e venne eletto Segretario Provinciale del partito a Valparaiso, la sua città natale. Il suo obiettivo era un sistema sociale che, attraverso riforme radicali e con metodo democratico, potesse trasformare lo stato e le istituzioni fino a realizzare una società che garantisse a tutti gli esseri umani la possibilità di sviluppo della persona e dove il potere fosse effettivamente nelle mani dei lavoratori. Al quarto tentativo, il 3 novembre 1970, Allende venne eletto presidente – con il 36,3 percento dei voti contro il 35 di Alessandri, il candidato della destra – a capo di Unidad popular, una coalizione composta da socialisti e comunisti insieme al partito radicale e al Mapu (partito nato dalla scissione a sinistra della democrazia cristiana) e con l’appoggio esterno del Mir, un piccolo movimento di orientamento castrista.
La via cilena al socialismo intrapresa da Allende si proponeva il superamento di antiche e profonde disuguaglianze sociali, attraverso radicali misure come la riforma agraria, l’aumento dei salari, la nazionalizzazione del rame, e la riforma del sistema sanitario e scolastico. Ma il governo di Allende si è dovuto scontrare sin dal principio con delle forti resistenze interne e con un’aperta opposizione esterna, guidata in primo luogo dagli Stati Uniti di Nixon e Kissinger. Di fronte alla fragilità di Unidad popular, che controllava l’esecutivo, ma non il potere legislativo né quello giudiziario, alle offensive della destra e alla minaccia di intervento militare, Allende cercò sempre di collaborare con la Democrazia Cristiana, ma si scontrò con il disegno golpista, con le fratture della Democrazia Cristiana e con contrasti interni del suo schieramento sfruttati dalla destra.
La vicenda di Allende si inserisce in un contesto storico caratterizzato dai processi di liberazione, di risveglio e di rottura dei vecchi schemi che hanno segnato il panorama mondiale alla fine degli anni 60. Ma di fronte a tali processi e alle illusioni della rivoluzione vi è stata anche la dura reazione da parte dei poteri conservatori che in molti paesi dell’America Latina – tra cui in primo luogo il Cile – ha portato a un’eclissi della democrazia e all’affermarsi della dittatura che ha segnato per un ventennio la storia di quei popoli. Gli anni di Pinochet furono anni di grandi sofferenze per il popolo cileno ed ebbero un forte impatto sulla società civile di tutto il mondo, soprattutto nei paesi europei, dove i concetti di intollerabilità del crimine politico erano ampiamente affermati e dove l’uso della violenza del regime militare risultava inaccettabile. La Commission International de Investigacion de los Crimenes de la Junta Militar in Cile ha accertato che il regime di Pinochet è responsabile di 8000 morti in azione, 2400 uccisi o desaparecidos e almeno 5000 internati e detenuti politici nel primo e nel secondo anno. Furono colpiti tutti i ceti, e non solo le persone sospettate di contrastare il regime, ma anche studenti, uomini politici, intellettuali, operai, contadini e sindacalisti, perseguitati dalla carovana della morte fino nel nord e sud estremo del paese. Il regime colpiva anche fuori dai confini del Cile e alcuni oppositori vennero assassinati mentre erano in esilio in altri paesi.
Come in molti paesi d’Europa, anche in Italia si sviluppò un forte movimento di solidarietà e vennero proclamati unitamente da Cgil, Cisl e Uil scioperi di solidarietà con Allende e con il popolo cileno. La repubblica italiana non ha mai riconosciuto il regime di Pinochet e dopo il golpe molte riflessioni e dibattiti hanno animato la vita politica nel nostro paese. La vicenda del popolo cileno si era impressa così duramente nell’immaginario collettivo anche perché il progetto di socialismo della libertà avanzato da Salvador Allende non aveva precedenti in America Latina e aveva suscitato entusiasmo e aspettative in tutto il mondo. Allende è stato in grado di parlare al di là dei confini e uno dei pochi presidenti che, eletti democraticamente, abbiano tentato la costruzione di una società socialista nel rispetto della costituzione. Il suo sacrificio è legato ai tentativi di giustizia sociale di cui Allende è simbolo nel mondo. Egli era pienamente consapevole dei rischi che correva, ma, nonostante ciò, ha incarnato la lunga tradizione di lotte della sinistra del Cile, battendosi per i lavoratori e per i settori più umili del suo paese con un programma di governo che prevedeva il controllo pubblico di settori chiavi dell’economia, riforme istituzionali significative, il decentramento dello stato e forme di partecipazione e di controllo dal basso.
Con il proprio sacrificio Allende ha gettato un seme importante, che ha consentito al Cile di sopravvivere e di uscire dagli anni bui del regime di Pinochet. Oggi in Cile socialisti, democristiani e radicali governano insieme con un primo ministro donna, Michelle Bachelet, socialista e figlia di un alto ufficiale torturato fino alla morte per le sue idee democratiche. Questo risultato storico della democrazia è stato reso possibile grazie all’impegno unitario del popolo cileno e al sacrificio personale di Salvador Allende. Ma il seme gettato da Allende va anche al di là dei confini del proprio paese, dal momento che è ancora in grado di parlare al nuovo mondo segnato dalla globalizzazione, dalle innovazioni tecnologiche e dai nuovi equilibri che hanno accentuato asimmetrie, precarietà e incertezze. La riflessione su quanto ha cercato di fare Allende nel secolo scorso è ancora attuale, non solo in Cile, perché la sfida contro la povertà e l’ingiustizia non è ancora vinta, povertà e emarginazione sono ancora presenti, acute ed estese disuguaglianze sociali non sono state ancora superate. Per questo è importante ricordare, tenere in vita e trasmettere alle nuove generazioni esperienze che – come quella di Salvador Allende in Cile – sono in grado di comunicare il senso più profondo e irrinunciabile della politica e della democrazia.

Donne e Immigrazione 2


Seduta alla sua scrivania, Anna Stanescu parla piano, ma con grande determinazione. È arrivata in Italia 15 anni fa e ora è una delle dieci donne straniere che gestiscono la comunità “Risvolti”, occupandosi di mediazione interculturale, assistenza domiciliare e socializzazione per gli anziani. “Sembra essere passato tanto tempo dal mio arrivo – ricorda Anna –. Gli inizi non sono stati facili. Ho lasciato la Romania a 26 anni, insieme a mio marito e ai nostri due figli, non tanto a causa di difficoltà economiche quanto per la mancanza di prospettive. Era il periodo successivo alla rivoluzione, ma la grande svolta che ci aspettavamo non arrivava e cominciavano a vedersi i lati peggiori del capitalismo selvaggio che si andava affermando”.
Dopo un primo periodo di instabilità e smarrimento, Anna partecipa a un corso per la creazione di impresa sociale da parte di donne straniere in seguito al quale, nel gennaio 2001, nasce la cooperativa “Risvolti”. “La vita nella cooperativa non è sempre facile – sottolinea Anna –. Siamo imprenditrici di noi stesse e quando le cose non vanno bene ne risentiamo tutte”. La cooperativa, accreditata come organismo che eroga servizi alla persona presso il V dipartimento del comune di Roma, è attiva nel municipio XVII e gestisce, oltre ai servizi di assistenza domiciliare, diversi progetti di inserimento lavorativo per donne straniere e di mediazione interculturale nelle scuole. Questi ultimi prevedono alcuni servizi rivolti al bambino immigrato, come l’interpretariato linguistico. Altri sono rivolti a tutta la famiglia, e tra questi in particolare alcune attività e laboratori interculturali che coinvolgono la classe intera e uno sportello per orientamento, informazioni e sostegno psicologico. “Nelle scuole dove lavoriamo – spiega ancora Anna – si vedono dei buoni risultati in termini di inserimento del bambino immigrato e di educazione all’intercultura per tutti. Le nostre attività sono apprezzate sia dagli insegnanti sia dalle famiglie, e non abbiamo mai avuto episodi di intolleranza”.
Secondo la Stanescu il fenomeno migratorio è ormai inarrestabile ed è in continua evoluzione, avendo ormai introdotto modifiche profonde nella società. Fino a oggi le risposte delle istituzioni e della politica non sono state adeguate alle esigenze delle persone immigrate e spesso sono le donne a pagare il prezzo più alto. “Io riscontro un forte disagio tra le stesse socie della cooperativa – si rammarica Anna –. Ogni anno il rinnovo del permesso di soggiorno è un tormento, con code interminabili e mille documentazioni da riempire e dichiarazioni da fare. Queste rigidità e complessità non fanno altro che aumentare il numero degli immigrati che passano da una condizione di regolarità a una condizione di irregolarità, con conseguenze drammatiche per le famiglie immigrate”. Anna rileva come spesso le vittime di questa situazione non siano solo le donne immigrate: “A volte – spiega – ci troviamo di fronte a due soggetti deboli, da un lato la donna immigrata senza diritti, dall’altro una persona anziana che ha bisogno di cure e assistenza, ma non ce la fa ad arrivare a fine mese e non può metterla in regola”. Spesso la vita della donna immigrata è psicologicamente massacrante. “Alcune donne frequentano i nostri programmi di inserimento lavorativo solo per parlare con qualcuno e avere un sostegno psicologico. Anche se non si lamentano apertamente basta leggere nei loro occhi per trovare un forte disagio”.
Anna Stanescu e le donne della cooperativa “Risvolti”, camerunesi, peruviane, irachene, etiopi e ucraine, continuano con le loro attività ad aprire la strada a un’immigrazione consapevole, integrata e produttiva, che vede nella femminilità non un ostacolo ma una chiave di successo.

Donne e Immigrazione

Le risposte all’immigrazione da parte del potere politico sono cambiate nel tempo, a seconda del contesto sociale ed economico locale e internazionale. Dopo il boom economico degli anni 60, l’Italia, insieme agli altri paesi fino ad allora di emigrazione, come Spagna, Portogallo e Grecia, ha iniziato a diventare meta di immigrazione e non più solo paese di transito. Questi paesi, storicamente meno abituati a gestire tali fenomeni, hanno adottato delle politiche di immigrazione sostanzialmente restrittive, influenzate dai sistemi normativi dei paesi di immigrazione di lunga data, come Germania, Francia e Stati Uniti. Nei paesi di nuova immigrazione, le conseguenze dei flussi migratori sono state più contraddittorie e le risposte del potere politico inadeguate.
In Italia negli ultimi 20 anni il fenomeno dell’immigrazione è aumentato costantemente e il numero degli immigrati è cresciuto di oltre 30 volte. Secondo il XVIII Dossier statistico Caritas/Migrantes del 2008, il numero degli immigrati regolarmente presenti in Italia oscilla tra i 3.800.000 e i 4.000.000 con un’incidenza del 6,7 percento sulla popolazione complessiva. I flussi registrati nell’ultimo decennio sono tra i più alti nella storia d’Italia, paragonabili, se non superiori, all’esodo verso l’estero degli italiani nel secondo dopoguerra. Oggi gli immigrati hanno un tasso di attività del 73 percento, 12 punti più elevato rispetto a quello degli italiani e, secondo le stime di Unioncamere, concorrono per il 9 percento alla creazione del Pil. Inoltre, con 3,7 miliardi di euro utilizzati come gettito fiscale, coprono abbondantemente le spese sostenute per i servizi e l’assistenza.
Una delle caratteristiche più rilevanti del flusso migratorio degli ultimi anni è l’incidenza della presenza femminile, diventata ormai paritaria a quella maschile. Le donne sono sempre più protagoniste dell’immigrazione verso l’Italia, soprattutto a causa delle richieste del mercato del lavoro. La crescente domanda di servizi domestici e di servizi alle persone favorisce l’afflusso di donne immigrate nel nostro paese. “Esiste un nesso stretto tra la femminilizzazione dei processi migratori e della forza lavoro e la domanda di attività tradizionalmente femminili come i servizi di cura e domestici, il lavoro infermieristico e l’insegnamento” afferma Lilli Chiaromonte, responsabile del Dipartimento Immigrazione della Cgil. Se da un lato le donne diventano sempre più soggetti attivi del fenomeno migratorio, garanti del reddito familiare e artefici della mobilità sociale e della mediazione culturale, dall’altro sono più esposte degli uomini ai rischi della dequalificazione umana e professionale. Relegate alla semplice attività di cura ed escluse dalle relazioni sociali, le donne migranti si ritrovano spesso segregate in nuove schiavitù che sviliscono la loro formazione scolastica e professionale. “Alla femminilizzazione dei flussi migratori corrisponde la ‘badantizzazione’ del welfare”, commenta la Chiaromonte. Un’inchiesta della Fiom riporta inoltre che il numero delle donne migranti che dichiara di essere vittima di intimidazioni e discriminazioni sul luogo di lavoro è superiore a quello delle donne italiane, mentre il 4,7 percento afferma di aver subito violenze fisiche da parte di colleghi, contro l’1,5 percento delle italiane.
I provvedimenti del governo in tema di immigrazione inaspriscono le condizioni di vita degli immigrati nel nostro paese e le donne potrebbero subirne le conseguenze peggiori. In particolare la norma che elimina il principio di non segnalazione degli immigrati regolari che si rivolgono a una struttura sanitaria potrebbe avere delle gravissime ripercussioni sulla salute delle donne immigrate, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e il parto. Inoltre le politiche del governo, rendendo sempre più difficile l’ingresso regolare e l’ottenimento del permesso di soggiorno, destinano gli immigrati all’irregolarità e alla clandestinità, relegandoli all’interno dell’economia sommersa e irregolare che metterà sempre più in pericolo anche la loro salute fisica. La Casa Internazionale delle donne ha reso pubblico il documento “Abitare il mondo, sentirsi a casa”, in cui si dichiara che “per il governo la questione immigrazione è principalmente questione di chiusura e di ordine pubblico, poiché in nome della lotta alla ‘clandestinità’ non affronta contestualmente il problema della revisione di quelle leggi che di fatto rendono clandestina l’immigrazione e non prevede nuove possibilità di regolarizzazione e integrazione”. In tal modo si profila un “diritto penale differenziato per lo straniero”, un diritto diseguale, secondo il quale in nome dell’emergenza si sospendono i diritti fondamentali degli stranieri.
La presenza degli immigrati dovrebbe invece essere considerata un giacimento di esperienze, una forza promotrice dell’avanzamento della nostra società, non solo in termini di produzione, ma anche di trasmissione di valori e modelli. In quest’ottica la presenza di donne immigrate rappresenta un fattore di novità e offre nuove possibilità di sviluppo e di integrazione. Le donne portano con sé valori ed esperienze diverse, trovando dei punti di contatto che esprimono idee di reciprocità e collettività. “I desideri, i progetti e le scelte delle donne hanno la forza di modificare assetti ed equilibri precostituiti e di aprire prospettive di cambiamento sia in termini di sviluppo che di libertà individuali”, conclude Lilli Chiaromonte. I valori della collaborazione, della cooperazione e dell’integrazione sono spesso veicolati attraverso le attività femminili. Non a caso uno dei dati più rilevanti nel panorama del lavoro rivolto alle donne immigrate è la crescita dell’associazionismo. In molte regioni italiane si sono moltiplicati iniziative e progetti gestiti da donne immigrate, volti alla creazione di sportelli di consulenza e di informazione, di servizi per l’inserimento lavorativo delle donne e di strumenti per la realizzazione della mediazione interculturale e linguistica. Tutelare i diritti delle donne significa salvaguardare una molteplicità e una specificità di genere che contribuisce ogni giorno ad arricchire la nostra società.

Campagna Emergenza Gaza

L’offensiva militare su Gaza ha colpito una popolazione già stremata e sull’orlo del collasso economico. Da 18 mesi la Striscia di Gaza è isolata. La maggior parte dei suoi 1,5 milioni di abitanti dipendono dagli aiuti e dall’assistenza delle organizzazioni umanitarie. L’attacco israeliano ha peggiorato ulteriormente la situazione, uccidendo 1.314 palestinesi, di cui 412 bambini, e ferendone 5.300. Migliaia di edifici sono stati distrutti, tra cui case, scuole, strutture pubbliche e aziende. Circa 850.000 bambini hanno bisogno di cure per superare i traumi della guerra.
Sin dal 1984 Progetto Sviluppo promuove attività di cooperazione all’estero e di educazione allo sviluppo e informazione in Italia. Con la partecipazione attiva di tutte le strutture associate, la ong della Cgil ha promosso la campagna “Emergenza Gaza 2009”, con l’obiettivo di assistere la popolazione di Gaza nella ricostruzione di condizioni di vita degne e di un futuro di pace. I fondi raccolti verranno utilizzati a sostegno del sistema sanitario, dell’assistenza ai bambini traumatizzati e della promozione del rispetto dei diritti umani e della ripresa del dialogo per la pace. La Cgil, che ha condannato l’offensiva israeliana su Gaza, nonché il ricorso alla violenza da parte di Hamas, ha deciso di mobilitarsi e di impegnarsi, materialmente e simbolicamente, nella costruzione della pace al fianco della vera vittima del conflitto: la popolazione palestinese di Gaza.

Sondaggio Palestina

Il Palestinian Center for Public Opinion (Pcpo) ha pubblicato un sondaggio svolto tra il 25 e il 31 gennaio scorso da Nabil Kukali (vedere articolo in alto) su un campione di 673 palestinesi maggiorenni residenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Alcuni dati sono particolarmente significativi e contraddicono alcune convinzioni diffuse nell’opinione pubblica. L’88,2 per cento dei palestinesi intervistati è favorevole alla tregua tra Hamas e Israele, più precisamente l’86,1 per cento dei residenti nella Striscia di Gaza e l’89,6 per cento dei residenti in Cisgiordania. Un altro dato sorprendente è che la popolarità di Al-Fatah tra i palestinesi è ora superiore di quella di Hamas, assestandosi al 40,6 per cento, contro il 31,4 di Hamas. Nella Striscia di Gaza il tasso di gradimento di Al-Fatah è fissato al 42,5 per cento, molto superiore a quello di Hamas che, in questo territorio, è ferma al 27,8 per cento. La stessa tendenza si ritrova in Cisgiordania, dove Al-Fatah raggiunge il 39,2 per cento, mentre Hamas si deve accontentare del 23,7 per cento. La maggior parte degli intervistati (51,3 per cento) ritiene inoltre che Hamas stia portando il paese nella direzione sbagliata, mentre nei confronti di Al-Fatah il giudizio è più equilibrato: il 46 per cento pensa che stia sbagliando, un altro 46 per cento è convinto che stia agendo positivamente. Nonostante ciò, è alta la percentuale (43,5 per cento) delle persone convinte che Hamas abbia rafforzato il suo potere in seguito alla guerra.
La maggior parte degli intervistati, il 46 per cento, crede che la soluzione migliore per i palestinesi sia la formazione di un governo di unità nazionale, mentre il 37 per cento è a favore di nuove elezioni. Il 21,1 per cento ritiene inoltre auspicabile riaprire un tavolo della negoziazione con Israele. Il 53,6 per cento è però favorevole a questa soluzione pur avanzando dubbi e riserve. Il 33,5 per cento, inoltre, non si schiera né a favore né contro il lancio di razzi da Gaza verso Israele.
I dati sulla condizione di vita e sulla situazione economica nei Territori occupati rivelano la preoccupazione e l’angoscia della maggior parte dei palestinesi riguardo al loro futuro. Il 72 per cento degli intervistati valuta la propria situazione economica “cattiva”, mentre il 61,2 per cento si dichiara pessimista rispetto al futuro e il 40,7 per cento è preoccupato o molto preoccupato per la sopravvivenza della propria famiglia. Tra i maggiori motivi di preoccupazione risulta al primo posto la sicurezza, seguita dal lavoro e dai soldi, dal futuro e, infine, dalla salute. Di fronte alla domanda “Credi che quando i tuoi figli avranno la tua età ci sarà pace tra Israele e Palestina?”, il 40,8 per cento degli intervistati ha risposto “decisamente no”. Solo il 16,5 per cento crede ancora che la pace sia possibile. Nella valutazione della propria vita, in una scala da 1 e 10 dove 1 sta per “molto insoddisfatto” e 10 per “molto soddisfatto”, il punteggio medio è 3,61.
I risultati del sondaggio dl Pcpo lanciano un forte allarme. Fino a quando le condizioni di vita dei palestinesi, in Cisgiordania e soprattutto a Gaza, non miglioreranno, è difficile immaginare una ripresa sociale ed economica, condizione fondamentale per una pace stabile e duratura. I bambini palestinesi crescono senza alcuna speranza e fiducia nel loro futuro. È responsabilità di tutti fare in modo che ciò non accada più.